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Slot e accertamenti fiscali su maggior reddito: la Corte di Giustizia Tributaria annulla la pretesa dell’Agenzia delle Entrate e la condanna alle spese legali

La Corte di Giustizia Tributaria di secondo grado della Sicilia, ha accolto l’appello di un operatore del settore del gioco, ovvero un gestore di apparecchi da gioco a vincita, contro l’Agenzia delle Entrate, annullando un avviso di accertamento che aveva portato a una pesante rettifica fiscale per l’anno 2012. Il ricorso riguardava la contestazione di maggiori redditi derivanti dalla gestione delle slot machine e l’attribuzione di un volume d’affari più elevato rispetto a quanto dichiarato.

Il caso trae origine da un accertamento condotto dall’Agenzia delle Entrate sulla base di dati trasmessi dai concessionari della rete telematica, che avrebbero evidenziato compensi percepiti dal contribuente in misura superiore a quanto dichiarato. Secondo l’Amministrazione finanziaria, il gestore avrebbe sottostimato il reddito imponibile IRPEF, il valore della produzione netta IRAP e il volume d’affari IVA, portando così a una richiesta di pagamento di maggiori imposte e sanzioni.

Il contribuente, però, ha contestato l’accertamento sotto diversi profili, evidenziando la mancanza di un contraddittorio preventivo, il difetto di motivazione e l’infondatezza delle contestazioni nel merito. La sua difesa si è concentrata sulla scarsa chiarezza delle prove fornite dall’Ufficio e sull’assenza di documenti ufficiali che dimostrassero l’effettiva percezione dei maggiori redditi contestati. Inoltre, ha sottolineato come i dati forniti dall’Amministrazione si riferissero a una tipologia di apparecchiature di gioco diversa da quella effettivamente gestita.

La Commissione Tributaria Provinciale di Catania, in primo grado, aveva rigettato il ricorso, confermando la pretesa dell’Agenzia delle Entrate e condannando il contribuente alle spese processuali. Tuttavia, in appello, la Corte di Giustizia Tributaria della Sicilia ha ribaltato la decisione. Il Collegio giudicante ha ritenuto che l’accertamento fosse carente sotto il profilo probatorio e che il contribuente avesse subito una violazione del diritto di difesa a causa della mancata conoscenza dei dati su cui l’Agenzia aveva basato le proprie conclusioni.

Un punto centrale della sentenza riguarda l’obbligo del contraddittorio endoprocedimentale, che, secondo la giurisprudenza della Corte di Cassazione, deve essere garantito nei controlli fiscali “a tavolino” per i tributi armonizzati, come l’IVA. In questo caso, il contribuente ha dimostrato di non aver avuto accesso ai dati utilizzati dall’Ufficio per quantificare il presunto reddito non dichiarato, impedendogli così di fornire elementi a sua difesa prima della notifica dell’accertamento.

Un altro elemento critico riguarda la qualità delle prove fornite dall’Agenzia delle Entrate. Il documento prodotto come base dell’accertamento, secondo i giudici, non era intestato, non riportava una data certa né una firma che ne attestasse l’autenticità, rendendolo privo di valore probatorio. Inoltre, non era chiaro se le apparecchiature gestite dal contribuente rientrassero nella categoria AWP o VLT, un aspetto fondamentale per determinare la modalità di calcolo dei ricavi.

La Corte ha anche contestato il metodo con cui l’Ufficio ha stimato il maggior reddito, basandosi su una generica ripartizione al 50% tra concessionario e gestore, senza considerare elementi specifici relativi alla reale attività del contribuente. La sentenza ha quindi riconosciuto il difetto di motivazione dell’accertamento e la mancata prova certa della pretesa fiscale, portando all’annullamento delle richieste dell’Agenzia.

La decisione ha comportato anche la condanna dell’Amministrazione finanziaria al pagamento delle spese processuali, quantificate in 2.000 euro per il primo grado di giudizio e 2.500 euro per il secondo grado, oltre agli accessori di legge. nb

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