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PAT: le testimonianze agghiaccianti. Alla ‘Baggina’ ritorna l’ex magistrato Colombo

Non temono di denunciare quanto vissuto e le testimonianze agghiaccianti degli operatori sanitari del Pio Albergo Trivulzio si moltiplicano mentre nelle ultime ventiquattro ore sono morti altri undici anziani (http://cifonenews.comma3.com/scandalo-pio-albergo-trivulzio-occultati-casi-covid-bellanova-nelle-rsa-lombarde-cera-la-memoria-di-questo-paese/). Il bollettino della prima settimana di aprile del PAT è quello di una guerra. Ben due commissioni d’inchiesta sono state nominate dal ministero della Salute e da Regione Lombardia per indagare sul polo geriatrico più grande d’Italia. Sono passati quasi 30 anni dall’arresto di Mario Chiesa con cui si aprì Tangentopoli e l’ex magistrato Gherardo Colombo torna ad indagare sulla ‘Baggina’. Questa volta però non si tratta di soldi buttati nel water ma di malati Covid occultati, di presunta strage.

“Il 23 febbraio è stato il mio ultimo giorno al Pio Albergo Trivulzio. Sono stata cacciata perché mi sono rifiutata di togliere la mascherina che, secondo una dirigente, allarmava i pazienti”. Lo racconta all’AGI (https://www.agi.it/cronaca/news/2020-04-09/coronavirus-pio-albergo-trivulzio-milano-8281656/) un’operatrice socio sanitaria della casa di cura milanese.  Preferisce mantenere l’anonimato “ma al momento giusto – assicura –  uscirò allo scoperto e non avrò problemi a testimoniare”.Quel 23 febbraio, spiega, “avevo, come da molti giorni, una forte tosse e la febbre. Al mattino, un’infermiera mi ha consigliato di indossare una mascherina, visto che da poco si era venuti a conoscenza del primo caso di coronavirus. Ho fatto come mi ha detto. Poi, ho incontrato la ragazza che fa le pulizie, anche lei aveva la tosse e lo ho suggerito di mettersi la mascherina. Lei lo ha fatto, poi, verso mezzogiorno, è venuta da me  e mi ha riferito di toglierla perché era stata sgridata e minacciata di licenziamento se l’avesse tenuta”. L’operatrice ha deciso però di non levarla “perché dovevo dare la frutta ai malati e avrei rischiato di contaminare il cibo coi dei colpi di tosse. Verso le 12 e 30, mentre stavo dando da mangiare ai pazienti, è arrivata una dirigente che mi ha invitato a togliere la mascherina perché stavo suscitando allarme ingiustificato negli ospiti. Ho obbiettato che mi era stato consigliato dall’infermiera, ma lei ha risposto che le altre mie colleghe non ce l’avevano. Ho fatto presente che io però avevo la tosse, loro no. Davanti a più testimoni lei mi ha detto: ‘Si tolga il grembiule e se ne vada’. Allora mi sono slacciata il grembiule e l’ho invitata a uscire perché non mi andava di continuare a parlare davanti ad altre persone”. Fuori, stando alla ricostruzione della donna, “la dirigente mi ha chiesto nome e cognome, aggiungendo che avrebbe avvertito il direttore generale di quanto successo. Ho risposto che poteva dirlo a chiunque, io non ho fatto male a nessuno, ho detto, anzi ho cercato di tutelare la salute dei pazienti. Poi, mi ha invitata a chiamare l’Ats e a chiedere un tampone”. Da allora l’operatrice sanitaria è in malattia, anche se il tampone poi non l’è mai stato fatto. “Le mie colleghe ancora lì mi raccontano che ci sono 5 stanze di pazienti in isolamento, con la febbre, e che un medico e una caposala sono in ospedale e stanno molto male. A differenza di quello che dice la dirigenza, le mascherine sono state fornite alle mie colleghe solo a metà marzo, non prima. Come avremmo potuto proteggere i pazienti senza dispositivi? E’ come se li avessimo uccisi, solo noi potevano portare il contagio da fuori”. La sua versione viene confermata da Nana, un’operatrice socio sanitaria di 45 anni, origine georgiana, che lavora nel reparto Bezzi della struttura. Il 28 marzo, risulta dai bollettini interni al PAT, l’azienda comunica l’arrivo di 3mila mascherine chirurgiche e di 2mila ffP2. “Ora – prosegue Nana – tutti le abbiamo, ma molti di noi sono a casa in malattia, alcuni per paura, ma tanti coi sintomi del virus. Anche dei colleghi che lavorano hanno i sintomi, non hanno gusto e olfatto per esempio. Io ho deciso di continuare a fare il mio mestiere per dovere, anche se la mia sorellastra mi dice di smettere e non so se mi farebbe state in casa qualora dovessi ammalarmi.  Non voglio lasciare soli i pazienti che stanno male, alcuni stanno per morire o stanno morendo, anche in questi giorni”.Retroscena agghiaccianti sui quali si dovrà fare chiarezza, mentre il terreno inizia a franare sotto i piedi di molti. E inizia il gioco al rimpallo. Così, il sindaco di Milano, Beppe Sala, ha detto che “collaboriamo con la Regione, è necessario fare luce sulla situazione, però sia chiaro che la sanità è di responsabilità della Regione”. Di contro il governatore Fontana, ha voluto precisare che le case di riposo “o sono private o sono partecipate da alcuni Comuni” e l’assessore al Welfare, Gallera ha riferito che “le prima linee guida alle Rsa” il Pirellone le ha date già il 23 febbraio. Uno dei punti centrali che verrà verificato con l’audit regionale sarà il tasso di mortalità nelle residenze rispetto ad una serie di fattori. E anche sul PAT, ha precisato Fontana, la Regione, che “contribuisce col Comune di Milano alla nomina dei vertici”, ha deciso, appunto, di “istituire una commissione per valutare con attenzione le cose che vengono contestate e che si leggono sui giornali. Fino a che non ci sarà la prova di ciò che è successo – ha aggiunto – non si possono trarre conclusioni”. Intanto l’obitorio del Pat è una stanza di sofferenza piena di lenzuoli bianchi arrotolati, sdraiati uno accanto all’altro. Altre sale sono state adibite a ricovero provvisorio di bare. Ognuna con un foglio di carta sopra, un nome, una storia. Nessuno, qui, ha fatto il tampone: che siano vittime del virus è, però, per la maggioranza quasi una certezza.

La Redazione

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